Quanto prendi, Micromega

Al terzo anno di università - corso, se non ricordo male, di Sociologia - mi fecero leggere un libro strano. Si chiamava, e si chiama, La vita privata. Dal Rinascimento all’Illuminismo, e faceva (fa) parte di una serie di cinque volumi sul tema, appunto, “vita privata” curati da due eminenti storici francesi.

Quando il professore ce lo ficcò in bibliografia, giusto a fine lezioni, pensai che era proprio una bella stravaganza. Cosa c’entrava un saggio a più mani su come i nostri trisavoli vivevano in casa, o si lavavano, o copulavano, con la sociologia, con Simmel e Weber, e tutti i nomi preclari delle scienze umane di fine Ottocento-inizi Novecento? Ero andato all’università per studiare gli aneddoti sull’uso delle posate cinquecento anni fa?

Il libro, lo si sarà già intuito, fu invece per me una rivelazione: i due studiosi vi argomentavano e dettagliavano, con riferimento a un particolare periodo storico, un concetto molto semplice ma rimosso e negletto, l’idea cioè per cui mentre ogni epoca tende a considerare naturale ed eterna la propria nozione di privato (e, corrispondentemente, di pubblico), in verità non fa altro che forzarla, plasmarla, trasformarla, fino a renderla irriconoscibile.

Nel Medioevo appartiene alla sfera del personale o del domestico, per non dire dell’intimo, ciò che un secolo avanti o dopo è stato o verrà considerato di dominio collettivo; certi ambienti prima percepiti come privati diventano, con il tempo, seppure senza apparenti modificazioni esteriori, pubblici, e viceversa; un gesto che per un mondo (una civiltà, una cultura, un’età) è la quintessenza del foro individuale, di lì a poco si collocherà al centro dello spazio e del tempo sociali, e così via.

A questo punto, domanda: cosa avrebbero scritto, dopo il volume conclusivo sul Novecento, i due storici francesi su questo abbrivio di Ventunesimo secolo? Dove si colloca, per gli abitanti, novizi e sprovveduti, dell’incipiente millennio il confine fra la dimensione del sé e quella degli altri, fra l’interno e l’esterno, ovvero, lo dico per l’ennesima volta, fra il privato e il pubblico?

Un primo impatto è stato, paradossalmente, positivo: a fronte del Leviatano digitale, possibile o reale, si sono contrassegnati come privati, o formalmente appartenenti alla sfera privata, tanti comportamenti, dati, gusti che in precedenza la burocrazia e gli ambienti sociali amavano arare e dissodare, spiattellandoli urbi e orbi con allegra impunità. Ma se i codici e le deontologie, oggi, fanno rientrare (o forse approdare), che so, la malattia, o l’invalidità, alla sfera del sé, come prevenzione o reazione al possibile abuso delle informazioni sugli individui che la megamacchina digitale prospetta (e non di rado attua), contemporaneamente quelle stesse persone che reclamano riservatezza amministrativa su dati, attitudini ed esperienze individuali si rendono serve volontarie dei grandi fratelli social, alimentando di contenuti all’apparenza molto riservati e molto intimi le piattaforme del web.

La spavalderia, per non dire la cafonaggine, con la quale la gente ha cominciato (e proseguito) a parlare delle proprie corna o dei propri appetiti non confessabili sui network, infrangendo parecchi tabù, si è d’altra parte ormai proiettata e trasferita anche nella vita reale (ammesso che sia definibile tale): basta farsi un Bologna-Milano via treno, o sedersi con approccio auscultante in un locale alla moda un venerdì sera per capire che, uno, le persone non hanno più ritegno nel vetrinizzare il proprio privato, due, non c’è solo l’abbattimento di barriere ma una torbida voluttà nel raccontare per filo e per segno, dalle emorroidi ai turbamenti spirituali, la rispettiva esistenza, tre, il mestiere del pettegolo o della pettegola è destinato, come altri, a sparire.

A fronte di tale svacco, e della estroflessione sistematica di tutto quello che sta in casa, nel letto, nel cuore, se dovessi dire qual è, oggi, l’ultima enclave del privato, il confine, sempre più ristretto e asfittico, del do not cross this line, beh, non avrei dubbi. Possiamo chiedere, e siamo disposti a concedere, dettagli e delucidazioni non solo su quello che mangiamo e perché lo facciamo, ma pure sui nostri processi digestivi e deiettivi, se possibile; tutto reclamiamo e offriamo, tranne che una cosa, il vero, residuale, eroico territorio sacro della nostra vita altrimenti così social, così pubblica, così orfana del privato. 

Sarei quasi tentato di lanciare un esperimento collettivo, e poi restituire fra un mese, da queste colonne, gli esiti della prova: una volta al giorno, con persone diverse, dopo aver traccheggiato su cose vetero-intime come il voto dato alle ultime elezioni politiche o le antipatie per i colleghi di lavoro, piazziamo lì, con leggerezza, la domanda ultima, quella che produce improvvisa raucedine, sguardo smarrito, contro-quesiti interlocutori, fatti per perdere tempo in attesa che succeda qualcosa di liberatorio, lo squillo dello smartphone, l’arrivo di una vecchia conoscenza, il meteorite…“Ma tu, scusa”, e giù pausa teatrale, “a lavorare quanto prendi?”. Il campionario delle reazioni, garantisco, è uno spasso (“Ma lordo o netto?”, “Con anche i benefit?”, “Perché me lo chiedi?”).

Inutile che prosegua, però, a questo punto: lanciata la richiesta sul reddito, immagino che non pochi lettori si siano allontanati. E anche io, già che ci penso, ho un impegno fra dieci minuti…