The Truman show, Micromega

Beato Giacomino Leopardi che, al di là della siepe, ci vedeva almeno interminati spazi e sovrumani silenzi. Noi, che non abbiamo la cultura e il senso dell’arcano del poeta di Recanati, ma, in compenso, viviamo in una società diffusamente alfabetizzata (la più alfabetizzata della storia, su questo non ci piove) e, in teoria, laica e secolarizzata, ogniqualvolta gettiamo lo sguardo su una siepe (reale o metaforica) il meno peggio che riusciamo a concepire è che dal lato nascosto, oltre la soglia, ci sia uno che ci spia, o una banda di malfattori accampati da settimane, pronti a violare la proprietà privata. 

Sembra un problema da filosofi annoiati, questo di ciò che immaginiamo quando non possiamo vedere. Cioè, detta in termini più umani e schietti, della tendenza che le persone hanno a riempire i vuoti della percezione, i limiti del conoscibile, oggi, con suggestioni e fobie degne di un mugnaio medievale in odore di etilismo. Ma la cosa, che sulle prime ci può far ridere, rischia di diventare tremendamente seria.

Tutti abbiamo presente, credo, il protagonista di The Truman Show, e il fatto che, incappato in un paio di avvenimenti anomali, il personaggio interpretato da Jim Carrey, con quella faccia che ha (aveva) solo Jim Carrey, comincia a dubitare di tutto quello che gli succede e di tutti coloro che gli stanno intorno, fino all’agnizione finale (Truman Burbank è stato adottato, fin dalla nascita, da un’emittente televisiva che ne ha fatto la star di un infinito reality show, lungo come la sua vita). Ecco, da un po’ di tempo – non mi si chieda il perché, non ho risposte, al massimo qualche ipotesi politicamente scorretta, ergo non dicibile – siamo tutti diventati dei piccoli-grandi Truman Burbank, che non credono a quello che vedono e che, messi di fronte a una siepe, invece di immaginare, oltre il confine, non dico, con un pizzico di poesia, gli interminati spazi e i sovrumani silenzi, ma almeno, più pragmaticamente e tradizionalmente, la strada e i bambini in bicicletta, ipotizzano come minimo di essere sorvegliati dai servizi segreti (anzi, che il fogliame, a osservarlo bene, non sia altro che il dozzinale travestimento degli agenti).

Il telefono squilla tre volte, per opera di un numero sconosciuto, e poi il tentativo di chiamata si interrompe? Non è né uno che si è sbagliato (spiegazione novecentesca, un po’ anacronistica, ma verisimile per il novanta per cento dei casi), né un call center, umano o automatizzato, che se non rispondiamo molla presto (spiegazione da ventunesimo secolo, ritenuta però troppo semplice e gonza per essere vera). Come minimo, medita il Truman che ha preso la regia delle nostre paranoie mentali, il numero del cellulare è finito in un baco della rete mondial-galattico-universale che controlla i dispositivi elettronici – e, attraverso i dispositivi, le vite - di tutta l’umanità, e il trillo inconsueto, come in Matrix (altro film, vuoi vedere che ne abbiamo guardati troppi?), è il segnacolo di una trama nascosta e spaventosa dei poteri forti non ancora oliata al meglio.

Un coetaneo che frequentava il nostro stesso liceo, dopo anni di sorda ostilità ed esibita asocialità, ci incrocia e saluta con entusiasmo? Sarebbe bello pensare che abbia conservato un bel ricordo di quegli anni e che abbia superato vecchie reticenze e timidezze. Oppure normale ipotizzare che, nel confusionismo mnemonico frutto degli anni che trascorrono, ci abbia confuso con un altro, dimenticando che gli stavamo sugli zebedei. Ma bello o normale fanno rima con puerile, le spiegazioni semplici vanno bene per i tonti, e poiché la sappiamo lunga (e abbiamo aperto gli occhi, e ascolta me, e fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio) quel “ciao” sventolato neanche fosse una bandiera vuol dire, come minimo, che Ciccio ci vuole agganciare e circuire, per venderci qualcosa, no, peggio, ci chiederà dei soldi, e poi si farà di nebbia, quindi la prossima volta si svicola anticipatamente.

Di questo passo, ovvio, un “ti voglio bene” buttato lì, anche un po’ alla carlona, dal compagno o dalla compagna di vita farà avviare indagini degne dell’FBI (“che cosa mai avrà voluto intendere con quel ti voglio bene?”), e il bambino che chiederà al genitore di trovargli un bagno verrà interrogato sulla vera, recondita e cervellotica, finalità di un’istanza all’apparenza – ma solo all’apparenza – banale come quella di fare la pipì. La dietrologia, la disciplina che vuole vederci chiaro, senza più zone d’ombra, sul fatto che le mucche muggiscono e i cavalli nitriscono (“ragioniamoci sopra”, direbbe Crozza che fa Zaia, o Zaia che fa Crozza), è la disciplina regina del nostro tempo, e si candida, con questi ritmi, a divenire l’unica forma di sapere socialmente legittimata. Pazienza se dietro la superficie delle cose e oltre le soglie del nostro sguardo non riusciamo poi a scorgere altro se non i soliti moventi che disprezziamo a parole e razzoliamo di fatto: egoismo, brama di potere, smania di visibilità, solo un po’ imbellettati con qualche aura di mistero. Niente interminati spazi e sovrumani silenzi, per intenderci. Che poi, anche questo infinito, siamo sicuri che è tutta farina del suo sacco?