Una scusa tira l'altra, Micromega

Qualche settimana fa sono andato allo Stadio Olimpico di Roma, con un manipolo di amici, a vedere una partita del Sei Nazioni di rugby. Appuntamento ormai canonico, facciamo pellegrinaggio della palla ovale tutti gli anni. In questa circostanza però l’orario abbastanza tardivo del match (le 16) ci ha consigliato di utilizzare l’auto. Per cui, in vista del simpatico torpedone di macchine, nei giorni precedenti l’evento abbiamo prenotato posti-parcheggio presso un’autorimessa vicina all’impianto sportivo della capitale, sicuri in questo modo di non dover fare code o, peggio, dover battagliare per una piazzola.

Con il compiacimento sottilmente orgasmico dei boomer che sanno maneggiare le piattaforme, le app, e tutte le variopinte utilità del terziario digitale, abbiamo fatto la prenotazione tramite uno dei classici portali di aggregazione, quelli che mettono insieme più strutture della stessa fattispecie, in questo caso parcheggi privati a pagamento, gestendo l’incontro fra offerta e domanda. Tutto molto bello, molto smart, molto rapido e impersonale, l’unica cosa di cui ci siamo dovuti preoccupare è stata la vicinanza o meno del parking rispetto allo stadio. Poi tutto il resto, pagamento anticipato compreso, è andato a scorrimento libero.

L’economia e il mercato digitali hanno questo di bello: ordini un pasto con consegna a domicilio, prenoti un trasporto metropolitano in auto, opzioni un volo per una vacanza, tutto, grazie all’affinamento dei portali e ai meccanismi autocorrettivi dell’intelligenza artificiale, è straordinariamente performativo, consequenziale, quasi sempre privo di intoppi. Poi, una volta completata la parabola elettronica dell’acquisto o della prenotazione del servizio, si apre la dolorosa vicenda del mondo materiale, in cui le geometrie perfettamente euclidee di quello che avveniva on-line si trasformano in legni storti, perché il volo è in ritardo o in overbooking, perché la struttura ricettiva scelta non è esattamente corrispondente alla rappresentazione di sé offerta sui siti, perché l’Uber di turno, molto banalmente, è rimasto bloccato da una processione per il patrono locale o da una manifestazione per la tutela dei diritti civili.

Ovviamente in Italia, dove la differenza fra il mondo come rappresentazione e il mondo come realtà è decisamente marcata, e dove non di rado capita di incappare nei pronipoti di Totòtruffa ‘62, il senso di vuoto e di precipizio che si apre ogniqualvolta si transita dalla perfezione dei servizi on-line alla ruvidezza e abrasività delle prestazioni effettivamente erogate può risultare potentemente straniante. Ad esempio il giorno della partita è stato molto straniante realizzare, una volta arrivati nelle adiacenze dell’Olimpico con discreto e responsabile anticipo, che l’autorimessa presso la quale avevamo fatto la prenotazione dei posti-auto – caratterizzata, secondo gli incantamenti affabulatori della piattaforma, da orari di apertura più che umani, ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, ma che dico, anche il 30 febbraio, il 31 aprile, il 32 maggio – ecco, dicevo, è stato abbastanza spiazzante prendere atto invece che alle 13.05, sensibile al richiamo di una amatriciana festiva, il titolare del posteggio aveva chiuso baracca e burattini e, “come tutte le domeniche” (testimonianza del benzinaio dirimpettaio), avrebbe riaperto intorno alle 18.

Ora, mi sembra di sentire le lamentele, Albarani hai rotto, non è che adesso usi la rubrica, e il tempo dei lettori, per pigolare su una truffa da neanche venti euro (perché il parcheggio prenotato era chiuso, ma qualche giorno prima, si diceva, quando era stato il momento di pagare la prenotazione ed effettuare la transazione online, irreversibile, tutto era filato alla velocità della luce), fai come fanno gli altri, muoviti da killer seriale nelle recensioni, se vuoi vendicarti, oppure rivolgiti ad un’associazione di consumatori… 

No, niente di tutto ciò, non è questo il tema. Tra l’altro, posso dirlo retrospettivamente, non si è trattato neanche di una fregatura organizzata, ma proprio di una asimmetria fra il mondo reale, in cui le autorimesse chiudono, i gestori mangiano a casa, e alla domenica ci fanno pure la pennichella pomeridiana, eccetera eccetera, e quello ideale del web e delle app, in cui tutti sono sempre a tua disposizione e si alzano alla mattina con l’unico scopo – come no! – di renderti la vita idilliaca. Il tema è un altro, e consiste nel fatto che una volta presentato il reclamo presso il customer service digitale della piattaforma, ha preso vita una corrispondenza (anche qui lo dico chiaro, culminata poi nel trionfale rimborso di euro 16,28) durata almeno dieci giorni e alimentata da un numero infinito di risposte alla mia istanza iniziale, in cui – faccio una valutazione a spanna – devo aver contato circa una quarantina di espressioni, più o meno correttamente distribuite e formulate, di scuse, di rincrescimento, di attestazione di contrizione. 

Tutto un “siamo veramente spiacenti di”, “ci rincresce che”, “vorrà accettare le nostre scuse, purtroppo”, talmente esagerato che, a metà circa della logorrea via e-mail per ottenere la laboriosa restituzione dei sedici e rotti, mi sono anche immaginato, con spirito surreale, che l’operatore o l’operatrice dell’altra parte della barricata a un certo punto mi chiedessero con quali strumenti, gesti o violenti rituali di espiazione volessi che cancellassero l’indelebile colpa.

Si sarà già capito: tanta smania e siffatta liberalità nel dichiarare profonda contrizione per il disagio arrecato rappresentano in verità, nel web market contemporaneo, la materia prima con cui viene plasmata, in circostanze come quella appena descritta, la lunga melina dilatoria finalizzata a stancare il cliente o l’utente, o bene che vada a prendere tempo per appurare appieno se egli ha torto o ragione. Allora diciamo, per condurre in porto questo piccolo ragionamento, che risponditori automatici, chatbot, assistenti telematici e compagnia cantante non fanno altro che portare all’esasperazione quantitativa (tanto alle macchine non costa fatica) la tendenza generalizzata, in ogni anfratto del consorzio sociale, ad utilizzare senza posa scuse di ogni genere e finalità. 

Scuse per il ritardo, scuse per il mancato pagamento di quanto dovuto, scuse per l’omissione procedurale, “scusa” dicono i miei studenti perché non hanno fatto i compiti, “scusa” rispondo io perché ho dimenticato di preparare l’approfondimento che avevo preannunciato, scusa se ti sono montato sul piede, scusa se ti ho tamponato la macchina, o mi sono dimenticato il tuo compleanno: a partire dal digitale ma per finire, concretamente e terribilmente, nel mondo materiale, la nostra società, che si vorrebbe tanto laica, appare fondata sulla scusa, versione secolarizzata e frammentata (oltre che rapida e poco onerosa) della tradizionale confessione auricolare e della cristiana ricerca della remissione dei peccati.

Ho l’impressione, ma magari mi sbaglio, che se dalla circolazione venisse ritirato il diritto di scusa l’economia si fermerebbe, la società batterebbe in testa, salterebbe l’ordine politico, un po’ come se improvvisamente l’enorme massa di debiti che gli stati, le imprese, le famiglie hanno contratto, e su cui si regge il nostro precarissimo equilibrio gravitazionale, dovessero essere saldati di punto in bianco (in fondo cosa sono le scuse se non cattivo debito/credito pseudo-morale?). 

La repubblica immaginata dai nostri padri costituenti era incardinata su una serrata reciprocità fra diritti e doveri, facoltà e responsabilità. Oggi, a occhio, è subentrato un nuovo binomio: il privilegio pressoché incondizionato di porgere le proprie scuse per ogni dolo, da quello veniale al più grave, si accoppia e fortifica, contemporaneamente, con l’incitamento massivo, culturale e psicologico, a essere comprensivi nei confronti delle mancanze altrui, presenti e passate (i ragazzi di Salò ci chiedono venia, chi siamo noi per nicchiare?). 

Una scusa tira l’altra, verrebbe da dire, e in questo turbinio di indulgenze scambiate, assoluzioni elargite, piccoli perdoni impetrati, dal quotidiano alla macro-storia, finiamo per credere davvero di poter conseguire salvezza e paradiso in terra. E scusate se è poco…