V come..., Micromega

Allora, se è vero che nulla sarà più come prima, se questa volta qui, a forza di giocare con il fuoco, siamo realmente precipitati in una specie di nuova era, e ce li possiamo scordare per un bel po’ (per sempre?) i bei tempi in cui ci si ammassava, abbracciava e sbaciucchiava senza ritegno, insomma se tutto questo mondo in formato Covid, e molto altro, che, scuotendo la testa, ci raccontiamo da mesi (ventiquattro, ormai), non è scaramanzia, scongiuro, o blanda profezia (tanto passa…), ma immanenza, evidenza, destino, beh, servono innanzitutto due cose: nervi saldi, molto saldi, e nuovi vocabolari. Per i primi, i nervi, dichiaro subito la mia indisponibilità, sono saltati da tempo. Per i secondi, ecco, presento qui, timidamente e senza pretese, le prime, personalissime, voci di un futuribile Dizionario, che aggiorni saperi e consapevolezze alla luce della batosta (fisica, psicologica, culturale) che abbiamo preso, e delle pene pandemiche che continuiamo a scontare. 

Ovviamente, essendo un primo contributo, e venendo dopo e a causa di un trauma, il vocabolario non solo è incompleto e provvisorio, ma non segue nemmeno l’ordine alfabetico. Comincia, il mio dizionario, con la V, che uno direbbe “V come Virus!”, invece no, “V come Virus” lo può concepire un boomer, uno che non si aggiorna e che è rimasto indietro, adesso la V è dominio incontrastato di “Variante”. Un anno fa, settimana più settimana meno, il cento per cento della popolazione italiana, escluso qualche manipolo di virologi, quando sentiva parlare di variante andava, con la mente, alla Bologna-Firenze o, nel caso dei più informati, agli omonimi tratti curvilinei dei circuiti automobilistici di Imola e Monza. Adesso è la parola-chiave di tutta la baracca, basta accennarne le prime due sillabe per fermare la circolazione sanguigna dell’interlocutore, perché mentre ci balocchiamo con l’ipotesi che le nuove edizioni del coronavirus siano più miti, sotto sotto abbiamo una fifa terribile del “Big One” (così ho sistemato anche la B), il ceppo maggiorato che ci contagia dopo aver sfondato la porta di casa e svuotato il frigorifero.

Già che siamo in zona V sarà poi il caso di non dimenticare la W di “Wuhan”. Che è, storicamente, l’epicentro del Covid 19, ci mancherebbe, ma anche, sempre di più, un toponimo vintage, come dire “Circo Orfei” per i divertimenti o “Pinarella” per le località marittime. Wuhan è stata una speranza e, simmetricamente, una grande delusione. Dato che nessuno, tranne forse i suoi abitanti, ne aveva mai sentito parlare, per un po’ abbiamo covato l’illusione che si trattasse di una calviniana città invisibile, un luogo-non luogo dell’immaginario lontano dalle vie di comunicazione e dal resto del mondo. Quando abbiamo imparato che l’area metropolitana corrispondente aveva (ha) gli stessi abitanti della Lombardia e che la città era (è) un centro manifatturiero e accademico di valenza mondiale ci siamo, primo, vergognati per la badiale ignoranza in geografia, secondo, abbastanza rassegnati a quello che ci sarebbe arrivato addosso.

Se dici “W di Wuhan”, inutile essere ipocriti, dici anche, per assonanza, “P di Pipistrello” (o anche di “Pangolino”). La zoonosi, cioè l’origine animale del virus, con successivo trasferimento all’uomo, è stato un mantra della fase iniziale della pandemia. Poi è arrivata, in pompa magna, la verità controfattuale di quelli che la sanno lunga: prima è saltato fuori l’errore di laboratorio (magari nel maneggiare pipistrelli infetti, ha sostenuto qualcuno ancora sobrio), adesso, per quello che mi risulta, siamo già arrivati, nella narrativa complottistica, a Xi Jinping e Bill Gates che, incappucciati, si aggirano per le vie di Lodi e infettano (con un morso?) il runner Mattia, malato (e guarito) numero uno di Covid 19 in Italia.

Che se poi la pandemia è tutto un magnamagna (della Cina, di Big Pharma, dei poteri forti, della Consorteria del 5 G, eccetera), siamo a posto, è sottinteso: possiamo continuare a deforestare (D di “Deforestazione”, quindi), perché non è mica vero che Sars, Mers, ma anche Ebola, West Nile, Hendra, Nipah, la stessa Aids hanno una derivazione animale, e che sono il frutto dell’aggressione umana a ecosistemi reconditi in cui sono presenti serbatoi di virus potenzialmente devastanti, no, tranquilli, guardate bene, zoomate, nell’angolo in basso a destra del fotogramma che immortala lo spilloverci sono Xi Jinping e Bill Gates, sempre loro, per l’occasione abilmente travestiti da contagiose scimmie antropomorfe.

Fermo restando, e chiudo, che se la dietrologia economicistica lascia insoddisfatti c’è sempre quella di taglio politico: il mio imberbe, e un po’ rovescio, Dizionario del Mondo-Covid termina infatti, per il momento, con la A di “Agamben”, inteso come Giorgio, filosofo, quello che teorizza, letteralmente, l’esistenza, grazie al virus e in nome del virus, di una vera e propria dittatura sanitaria, offrendo una sponda para-intellettuale alla simpatica minoranza che ha deciso di salvarsi con le vaccinazioni degli altri. Agamben è sceso dall’eremo accademico di Parigi per sparare allusioni che pensavo circoscritte agli stravaccamenti post-sbronza di qualche personale sabato sera giovanile, come quando in Senato ha citato Hitler quale primo fautore di leggi sulla salute. Dimostrando che, Covid o non Covid, le leggi dell’ottusità umana sono più durevoli di quelle della fisica; e che a leggere (e scrivere) troppi libri è facile dare ragione alla vecchia, autoctona, diagnosi – “Ha studiato troppo!” - sull’imbecillità dei colti.