Mi ricordo ancora il giorno in cui, per la prima volta, fui discriminata perché donna. Lo ricordo come fosse ieri. Era un pomeriggio di inizio estate e le temperature erano già roventi. Mi recai al colloquio con un abbigliamento formale ma non troppo impegnativo, un casual-chic che mi sembrava si addicesse bene al ruolo proposto e alla mia giovane età.
Ci tenevo particolarmente a prendere parte alla selezione perché la posizione aperta era perfettamente aderente a ciò a cui mi ero dedicata negli ultimi anni e, per giunta, provenivo da un’azienda facente parte dello stesso identico settore di quella presso la quale avrei sostenuto il colloquio. Si potrebbe dire che le due compagnie fossero concorrenti.
Non mi spaventava la distanza da casa, né la mole di lavoro che avrei dovuto sostenere. Ero giovane e ambiziosa, non temevo la fatica. Arrivai al colloquio in perfetto orario. La sede dell’azienda sorgeva in una casa coloniale di campagna e la tenuta era meravigliosa: nel suo giardino, verde e immenso, stazionavano due pavoni che pareva facessero da guardia alla cancellata alta e imponente.
Mi sentivo già a casa. Fui esaminata da un tizio che si presentò come un consulente esterno: naso arcigno, occhiali scuri e un fare da stronzo. Sostenni il suo sguardo indagatore e il suo colloquio inquisitore senza timore, ad ogni domanda rispondevo con calma e puntualità. Non mi toccavano i suoi tentativi di mettermi in difficoltà: volevo quel posto e l’avrei ottenuto. L’intervista si protrasse per più di un’ora e mezza. La ricordo come la più lunga della mia vita.
Lì per lì pensai che probabilmente non mi avrebbero esaminato così a lungo nemmeno se mi fossi candidata come Presidente della Repubblica, ma i miei timori venivano sistematicamente spazzati via da quelli che sembravano essere elementi sempre positivi: avevo esperienza pluriennale in quella stessa mansione, conoscevo bene il settore e in qualche caso ero perfino riuscita a far sorridere lo stronzo.