Un keynesiano al timone, Soldi nostri

Inizia a delinearsi la politica economica del governo Draghi. Chi temeva, con l’avvento al governo di un ex banchiere centrale, una svolta decisa nel segno del neoliberismo o dell’arcigno conservatorismo, dovrà ricredersi. Quando Grillo ha incontrato Draghi ed è uscito con la battuta “È uno di noi” sembrava che scherzasse. Invece c’era del vero. Infatti non solo il neo presidente del Consiglio ha riconfermato le scelte del governo precedente, ma ha addirittura aumentato di un miliardo lo stanziamento a sostegno del reddito di cittadinanza, ha prorogato il reddito d’emergenza, ho sostanzialmente riconfermato il discusso cash back (ovvero la lotteria degli scontrini che, più che disincentivare l’uso del contante, premia le pulsioni consumistiche). In aggiunta, il ministro Brunetta ha subito proposto un aumento di stipendio di 107 euro mensili in media per i dipendenti pubblici, dopo anni di blocco dei contratti. Come leggere tanta magnanimità nella spendita di denaro pubblico? Oltretutto da parte di un governo presunto “tecnico”, che non dovrebbe quindi preoccuparsi del consenso, al pari dei populisti d’antan? La risposta va ricercata lontano nel tempo, nella formazione accademica di Draghi, allievo, all’Università di Roma, di Federico Caffè, alfiere del keynesismo in Italia, non solo sul piano teorico (si ricordino le sue pubblicazioni dedicate all’economia del benessere) ma anche all’atto pratico, come consulente di vari governi, nell’immediato dopoguerra (ovvero negli anni del piano Marshall), e anche successivamente per le politiche di welfare. In estrema sintesi: Draghi sta al Recovery plan come Caffè stava al piano Marshall. In entrambi i casi dopo una crisi spaventosa (la guerra, allora, la pandemia, ora) si trattava di uscirne grazie a forti immissioni di denaro pubblico nell’economia. All’epoca l’operazione riuscì, dobbiamo solo sperare che la storia si ripeta e che l’allievo eguagli il maestro. Oltre alla ricostruzione del tessuto economico – intento encomiabile – c’è un secondo obiettivo di questo genere di politica economica, non apertamente dichiarato poiché sicuramente meno popolare. Ovvero la ripresa dell’inflazione che, sola, può alleggerire il fardello del gigantesco debito pubblico, svalutandolo.

L’aumento concesso agli statali va in questa direzione perché innescherà una rincorsa salariale da parte delle altre categorie, come sempre è avvenuto in passato e, prima o poi, si avranno ripercussioni sui prezzi. Anche l’aumento del prezzo del petrolio e di altre materie prime (il rame, ad esempio) va in questa direzione. Curiosamente l’oro non ha beneficiato di questo impulso inflazionistico, anzi ha ritracciato dai massimi, ma la spiegazione è semplice: l’inflazione, già ripartita in America, ha determinato un aumento dei tassi dei titoli del Tesoro Usa, che ha avuto come conseguenza una rivalutazione del dollaro. Tassi Usa e quotazione del dollaro sono inversamente correlati all’oro, quindi, salendo i primi, cala il secondo. Ma se l’inflazione dovesse assumere un ritmo accelerato, l’oro dovrebbe riprendersi, già dal secondo semestre di quest’anno. Questi fenomeni si ripetono ciclicamente: sono andato a rileggere alcuni articoli da me scritti agli inizi del millennio, dopo la crisi dovuta all’attacco terroristico alle torri gemelle. Ecco un paio di titoli: “Ritorneremo a Keynes?” (2001); “1.400 miliardi” (2003), quest’ultimo riferito all’ammontare del debito pubblico (oggi siamo oltre quota 2500). In entrambi affrontavo il tema del ritorno dell’intervento pubblico nell’economia, verificatosi, nella storia, a più riprese, per uscire da momenti di grave difficoltà. E mi chiedevo dove sarebbe arrivato il debito pubblico, in conseguenza di ciò. Oggi lo sappiamo: è quasi raddoppiato (al raddoppio mancano solo 300 miliardi, ma il traguardo è vicino, poiché il debito pubblico continua a crescere). Insomma Draghi forse non sarà un grillino, ma un pochino socialista probabilmente sì, almeno a giudicare dai primi provvedimenti adottati. L’importante è che sappia spendere bene i soldi che arriveranno dall’Europa: in fondo è lì per questo.