Argomento impegnativo, l’inflazione, mi sia consentito quindi di iniziare in modo leggero, con una storiella di cui sono debitore al comico Daniele Luttazzi. Dunque un tale, affetto da un male incurabile, decide di farsi ibernare in attesa che venga trovata una cura idonea. Prima di farsi ibernare affida i suoi risparmi a un consulente finanziario affinché li investa a nome suo. Dopo sessant’anni viene risvegliato, curato e guarito. Telefona quindi subito all’ufficio del consulente per conoscere la consistenza del suo patrimonio e parla con il nipote che ricorda il mandato ricevuto dal nonno e comunica l’ammontare, attualizzato: ben trenta milioni di euro. L’uomo, felice, comincia a congetturare come spendere una tale fortuna, quando viene interrotto dalla centralinista che gli ingiunge, per restare in linea: “Per i prossimi tre minuti inserisca un milione di euro”. La barzelletta può sembrare paradossale ma se andiamo a leggere cosa accadde in Germania al tempo della Repubblica di Weimar, forse per telefonare sarebbe davvero occorso qualche miliardo di marchi. Ho visto infatti francobolli dell’epoca che riportavano un valore facciale espresso in miliardi. Questo spiega, come è ben noto, l’avversione degli austeri Tedeschi nei confronti dell’inflazione e delle cicale mediterranee amanti delle politiche monetarie lassiste. Meno noto forse è il metodo adottato in Germania per troncare improvvisamente l’inflazione e la svalutazione della moneta. Il 20 novembre 1923, quando il valore del marco raggiunse precisamente un milionesimo di milionesimo del valore aureo anteguerra, Hjalmar Schacht, “commissario per la moneta”, tagliò dodici zeri e, al tempo stesso, la banca centrale cessò di finanziare il governo. La manovra ebbe successo e sia i prezzi che il cambio (che era arrivato a 4 mila 200 miliardi per un dollaro) si stabilizzarono.
Inflazione, tra storia e memoria, Soldi nostri
Qualcosa di simile, ma in scala ridotta, a ben pensarci, è accaduto anche in Italia con il passaggio dalla lira all’euro, quando, di fatto, vennero tagliati tre zeri, però in questo caso l’effetto fu inflazionistico, poiché i prezzi raddoppiarono grazie all’equivoco un euro-mille lire (in realtà un euro valeva quasi duemila lire). Chi ha una certa età non ha bisogno di ricorrere ai libri di storia per ricordare l’inflazione a due cifre, conseguente alla crisi petrolifera intorno alla metà degli anni Settanta. Ma la svalutazione della moneta è una costante nella storia, anche a prescindere dai casi estremi sopra ricordati. Per dare un’idea della variazione del potere d’acquisto (che è ciò che conta davvero, al di là del valore nominale) ricordo che mio padre, negli anni Cinquanta, guadagnava cinquemila lire alla settimana, ovvero, al cambio attuale, circa dieci euro al mese (mia madre altrettanto). Con questi redditi, oggi considerabili da terzo mondo, la mia famiglia è riuscita a costruirsi una casa e, in seguito, a mandare un figlio a studiare all’università. Il fatto è che il peso del fisco, all’epoca, era quasi nullo (crescerà molto, e continuamente, dagli anni Settanta) e le esigenze erano minime (il consumismo non aveva ancora fatto capolino), ragion per cui oggi un salario cento volte maggiore (sui mille euro) viene considerato basso. È la conseguenza dell’inflazione stratificatasi in tutti questi anni.
Qual è oggi, la novità rispetto al passato? Un tempo c’erano meccanismi di indicizzazione automatica che agganciavano i salari al costo della vita (la famosa scala mobile), rimasti in vigore oggi solo per le pensioni. Questo sta determinando una situazione pericolosa per la tenuta delle casse pensionistiche dal momento che i salari non sono indicizzati all’inflazione, anzi, in molti casi sono fermi: non solo il numero dei pensionati aumenta in rapporto al numero dei lavoratori che versano i contributi, ma si sta creando un forte divario tra la base contributiva e la massa erogata (si parla di venti miliardi all’anno solo come conseguenza di questo fenomeno). Anche il risparmio, oltre al salario, soffre della mancata indicizzazione all’inflazione (pochi sono i titoli sul mercato con queste caratteristiche); il divario anzi è notevole. Lasciare i soldi fermi sul conto corrente comporta il rischio, in un solo decennio, di ritrovarsi nella situazione descritta nella storiella riportata all’inizio. C’è un’intera generazione che ha vissuto in un periodo di relativa bassa inflazione (oltre un ventennio): richiamare le vicende del passato può essere quindi utile poiché certi fenomeni possono essere ricorrenti e diventare addirittura strutturali.