I nostri lettori, come sempre, erano stati preventivamente avvisati, sia da chi scrive che dall’ottimo dottor Morgillo che, sulla base dell’analisi tecnica, aveva profetizzato il possibile scoppio della bolla sui mercati finanziari. Il crollo dei mercati obbligazionari era facilmente prevedibile, in relazione all’aumento dei tassi deciso dalle banche centrali per cercare di fermare l’inflazione: quando i tassi aumentano, crescono sì i rendimenti, ma calano conseguentemente, e in proporzione, i prezzi dello stock delle vecchie obbligazioni in circolazione. Ciò è matematico. Per questo le istituzioni finanziarie da tempo avevano provveduto a “scaricare” le obbligazioni a tasso fisso per passare a quelle a tasso variabile, indicizzate all’inflazione. Chi è rimasto intrappolato? Gli investitori che hanno sottoscritto fondi obbligazionari, i cui valori risentono del calo dei prezzi dei titoli in portafoglio. Più tutelati invece gli investitori che hanno puntato su polizze assicurative ramo I che meno risentono delle oscillazioni dei mercati poiché i titoli in portafoglio sono valorizzati al prezzo di acquisto, non al prezzo di mercato, e generalmente vengono portati a scadenza e quindi rimborsati al valore nominale. Ma le crisi, si sa, sono anche fonte di opportunità: dopo anni di tassi prossimi allo zero o addirittura sotto zero finalmente i titoli obbligazionari rendono qualcosa (il rendimento del BTP decennale si aggira intorno al 4 per cento).
La zampata dell'Orso fa scoppiare la bolla, Soldi nostri
Per questo, ormai da settimane, per chi avesse liquidità disponibile, vengono consigliati piani di accumulo basati sul BTP, scaglionati su diverse scadenze, per ridurre il rischio e mediare il rendimento: dal titolo biennale, al triennale, al quinquennale, al settennale, al decennale, con rendimenti che variano, secondo la scadenza, dall’1,5 al 4 per cento (al lordo di tasse sugli interessi, imposta patrimoniale, spese di acquisto e tenuta dossier titoli). Ci si avvicina insomma a rendimenti normali per le varie scadenze. C’è solo un problema: puntare sui titoli di stato italiani richiede una grande fiducia nel sistema paese. Un paese dal debito alle stelle, incrementato di ben 400 miliardi solo negli ultimi due anni, per le spese e i “ristori” conseguenti alla pandemia, per i bonus generosamente elargiti, con controlli scarsi e a posteriori, per lo stipendio statale graziosamente assegnato ai nullafacenti, per le spese destinate all’accoglienza di chiunque decida di venire a vivere a scrocco nel Bel Paese, e infine per il sostegno armato all’Ucraina. Draghi anzi ha già promesso, nel corso della recente visita a Kiev, che l’Italia si impegnerà per la ricostruzione (non sarebbe stato più saggio evitare le distruzioni cercando, per tempo, di favorire la pace?).
La sostenibilità del debito pubblico è strettamente legata all’andamento generale dell’economia, espresso dal Pil: ci sono segnali di recessione, per questo è aumentato notevolmente lo spread con il Bund tedesco. I tassi dunque sarebbero allettanti (anche se pari solo a due terzi dell’inflazione italiana, ma sempre meglio di niente), tuttavia, al solito, ci vuole un coraggio da leoni, o dell’incoscienza, a puntare sul decennale italiano. Non va meglio sull’azionario: il deciso intervento sui tassi attuato dalla Fed ha rafforzato il dollaro e affossato l’euro, ma ha anche affondato i mercati azionari, in primis il Nasdaq, dove sono quotati i titoli tecnologici. I mercati azionari erano stati gonfiati a dismisura dalla liquidità immessa per anni nel sistema dalle banche centrali: appena si è accennato a ritirare questa liquidità è crollato il castello di carta che era stato costruito artificialmente. Non si salvano nemmeno le criptovalute, ritenute, a torto, beni rifugio: mentre scrivo il Bitcoin è sceso da oltre 68.000 a poco più di 21.000 dollari, ovvero ha perso oltre due terzi del valore che gli attribuivano incauti investitori. Quando si entra in un mercato Orso la volatilità regna a lungo: è prevedibile che per tutta l’estate assisteremo al saliscendi dei mercati. Resta da vedere se le politiche delle banche centrali davvero riusciranno a fermare l’inflazione che, come è noto, è assai simile al dentifricio: una volta uscito dal tubetto è ben difficile farlo rientrare. Forse è anche per questo che non si vuole una pace a breve in Ucraina: la guerra rappresenta un ottimo alibi per il fallimento delle politiche monetarie delle banche centrali. Se siamo sull’orlo del baratro infatti non è per colpa nostra e di errori perpetuati per decenni, ma di quel cattivaccio di Putin che, ohibò, ora ci chiude i rubinetti del gas, dopo che abbiamo fatto veramente di tutto per indispettirlo.