Senza memoria non c’è futuro

In questi giorni è stata celebrata la festa della Liberazione. A più di settant’anni dalla fine della seconda guerra e ad oltre un secolo dall’inizio della prima guerra mondiale pare che gli Europei si siano scordati delle sofferenze e dei guasti causati dai due immani conflitti. Nel Novecento si è verificata infatti una sorta di guerra dei trent’anni, una guerra civile europea che ha finito per coinvolgere il mondo intero. Imparata la lezione, gli Europei hanno imboccato la strada della collaborazione, prima con la Comunità del Carbone e dell’Acciaio (Ceca), costituita da sei paesi tra cui l’Italia, poi con il Mercato comune europeo (Mec), infine con l’Unione europea. Sul piano monetario si è passati dallo Sme (Sistema monetario europeo), un sistema di cambi flessibili entro un certo range, all’euro, moneta unica di una parte dei paesi aderenti all’Ue. A questo punto però il meccanismo che per decenni ha visto una sempre maggiore convergenza e integrazione tra i vari paesi europei (assicurando un settantennio di pace e prosperità), sembra essersi inceppato. E’ chiaro che lo sbocco finale di questo processo unitario dovrebbe essere la creazione di uno stato federale, ma affiorano sempre più spinte centrifughe, da parte non solo dei popoli, ma anche dei governi. L’euro così si trova nella spiacevole situazione di moneta senza uno stato vero e proprio alle spalle: tutto è affidato alla responsabilità della Banca centrale europea: organismo indipendente per statuto, ma sottoposto a pressioni sempre più forti da parte degli stati che hanno interessi divergenti. Lo si è visto, di recente, con le pressioni della Germania contro la politica dei tassi bassi applicata da Draghi (accusato di voler favorire l’Italia, mentre in realtà sta applicando le stesse misure già adottate dalle banche centrali degli Usa, del Giappone e d’Inghilterra). Anche le politiche economiche e fiscali divergono, allargando il solco che già esiste tra paesi mediterranei e paesi del centro nord dell’Europa. 

L’Ecofin, la riunione dei ministri finanziari che si è tenuta ad Amsterdam si è conclusa con un nulla di fatto. La proposta olandese, appoggiata dalla Germania, di porre un tetto agli acquisti di titoli di stato da parte delle banche (a tutela dei depositanti) ha incontrato la fiera opposizione dell’Italia, le cui banche sono piene di titoli di stato nazionali. Al veto dell’Italia i paesi del Nord Europa hanno risposto bloccando il processo che dovrebbe portare a una garanzia unica sui depositi nelle banche europee, lasciando questo onere agli stati nazionali. Ovvero: Italia, Spagna e Grecia vogliono che le banche continuino a tenere in portafoglio ingenti quantitativi di titoli di stato (rischiosi in caso di default)? Benissimo. In tal caso i Nordici si rifiutano di mettere in comune la garanzia sul rischio di fallimento delle banche. Hanno ragione entrambi, evidentemente: i primi perché se le loro banche non acquistassero più i loro titoli di stato, gli stati fallirebbero; i secondi perché sarebbero costretti a salvare i depositanti delle banche che fallirebbero automaticamente in caso dei default degli stati sovrani (ipotesi non remotissima, data la perdurante crisi della Grecia e le costanti difficoltà di Italia e Spagna, ben lungi dall’esser fuori dalla crisi). 

Insomma l’Europa non è solidale, come dovrebbe essere uno stato federale e oggettivamente è divisa in due aree economiche dalle caratteristiche sempre più divergenti. A parte si colloca l’Inghilterra, che non ha mai voluto abbandonare la sterlina e dove riaffiorano tendenze isolazioniste (avete presente la battuta? “Nebbia sulla Manica, l’Europa è isolata”). Tutto ciò premesso è difficile trovare la sintesi. Occorrerebbe una classe dirigente europea lungimirante, come fu quella dei padri fondatori. Ma, soprattutto, occorrerebbe, nei popoli, la consapevolezza dei pericoli insiti nella disunione. Ecco quindi che le celebrazioni della fine della guerra dovrebbero indurre a una riflessione sui costi, umani e economici, dei conflitti tra paesi europei, come storicamente si sono verificati e come potrebbero verificarsi in futuro se dovesse dissolversi l’Unione. Anche esempi a noi vicini, geograficamente e cronologicamente, dovrebbero indurre a una riflessione: si pensi ai conflitti sorti a seguito della disgregazione della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica. In Ucraina, ad esempio, si stava meglio prima od ora?

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