La Liberazione di Carpi ha per il sottoscritto, davanti a tutti, i volti di due suorine, due maestrine della prima classe delle elementari di via Ciro Menotti, suor Anna Pia e Suor Maria Cielina: “Oggi, bambini, prepariamoci a uscire prima del tempo da scuola: la nostra città è già stata liberata dall’occupazione dei Tedeschi”.
Intanto la lezione continuava in quell’aula stracolma di scolari (circa una quarantina, ma forse eravamo di più) ed ero di scena proprio io, incaricato della lettura ad alta voce del “Pinocchio” di Collodi (sapevo già leggere e scrivere, avendo frequentato la Scuola preparatoria delle sorelle Amadei, una scuola che i bambini chiamavano Papparuccia).
Ma prima avevamo vissuto mesi di paura nera. Colpiva i ragazzi il cosiddetto “coprifuoco”: tutti rintanati nelle case da cui non doveva trapelare alcuna luce, le porte sbarrate con grosse travi. Il silenzio era assoluto interrotto soltanto a volte dal rombo di un piccolo aereo ricognitore inglese, la gente lo chiamava Pippo (i Carpigiani non rinunciano mai allo scherno). Ma questa nostra stessa gente non rinunciava soprattutto alla propria libertà, soccorrendo e ospitando di nascosto i partigiani e isolando il nemico nella sua insensata crudeltà.
E tuttavia era qui da noi il campo di concentramento di Fossoli con il suo popolo di ebrei e altri dannati allo sterminio nei lager nazisti.
Non a caso negli anni Settanta del Novecento, Carpi dedicò gli spazi del suo superbo castello (sale prima occupate da un operoso circolo per anziani) a un Museo monumento al Deportato politico e razziale nei campi di sterminio nazisti. Ricordo lo scrittore Carlo Levi (“Cristo si è fermato a Eboli”) il quale faceva parte della commissione per quel museo, che si rivolse a me con aria un po’ preoccupata: “Ma tutti questi vecchietti dove pensate di spostarli?”. Gli anziani finirono fra i tavoli di un lungo, stretto corridoio del locale ora occupato dal Mattatoio.
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Ma torniamo al groviglio di scoramenti e di speranze che turbava il gran popolo di Carpi negli ultimissimi giorni del conflitto.
I bombardamenti alleati non erano del tutto cessati e molta gente ancora scendeva nei rifugi che erano degli antri scavati specialmente vicino alle fabbriche e in certi punti della città fra i più fittamenti abitati.
Mio padre lavorava alla Magneti Marelli e con mia madre un giorno che gli facemmo visita in fabbrica l’acuto suono dell’allarme ci costrinse a scendere nell’antro sotterraneo dello stabilimento. Io ero più spaventato dal volto contratto della mamma che dalle bombe che cadevano. Quando uscimmo ci trovammo al margine di una voragine tanto grande da occupare quasi per intero il piazzale della stazione ferroviaria contigua. Fu un’esperienza terribile, la guerra mostrava il suo volto vero ben diverso, per esempio, di quello delle settimane estive quando da bambini eravamo “sfollati” in campagna presso un coltivatore amico di famiglia. Là della guerra si sentivano solo i rumori, anche se minacciosi. In quell’azienda agricola quasi ogni notte si rifugiavano partigiani che venivano a dormire nei granai del sottotetto e ogni mattina all’alba se ne ripartivano in silenzio per unirsi con i propri compagni di lotta.
Sulla Resistenza nel carpigiano, sul valore di chi vi prese parte, sarebbe di cattivo gusto tessere troppe lodi, ma mi torna spesso alla mente la figura di un signore con cui ebbi modo di intrattenermi anni fa, un signore a cui mancava un braccio. Mostrando scarsa educazione gli chiesi la causa della grave menomazione e lui mi rispose con un lieve sorriso: “Sono uno dei sedici fucilati da una rappresaglia nazista. Purtroppo solo io mi salvai. Mi buttai sul soldato mentre sparava, lui cadde a terra ed io scappai nella nebbia e nell’oscurità, poi mi rifugiai per tutta la notte in un fossato molto umido che non giovò certo al mio braccio ferito ma ebbi salva la vita”.
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Ricollegandoci all’annuncio di fine guerra delle nostre Suore di Carità, l’uscita anticipata da scuola ci infilò in un bailamme di cittadini mai visto. La gente era scossa da un’aspettativa nevrotica e si muoveva rapida da una via all’altra del centro. Quand’ecco che dal fondo di via Berengario si scorse l’avanzata di un lungo corteo di soldati tedeschi con le mani intrecciate sulla testa completamente rasata. Li tenevano sotto tiro due file esterne di uomini armati preceduti da un gruppo di autorità civili e di capi partigiani. Il trepestio era enorme e toccò il suo massimo quando la colonna di prigionieri raggiunse la piazza Vittorio Emanuele II (oggi la piazza dei Martiri) mentre dal palazzo del Comune un grosso altoparlante a imbuto diffondeva inni alla libertà e canti patriottici.
La sfilata dei prigionieri aveva già imboccato l’odierno corso Cabassi quando dalla folla uscì un grido: “C’è il gobbo! Arriva il gobbo!”. All’udire il quale, la moltitudine parve moltiplicarsi ulteriormente. Il gobbo che stava per essere condotto alla gogna era un ex dirigente del Fascio il quale era noto per avere fatto uccidere il marito di una propria amante, un assassinio che aveva profondamente disgustato la popolazione carpigiana.
Il gobbo era eretto e legato ai polsi su una carretta e nella mia fantasia di bambino era come se mi apparissero scene di un dramma medievale.
La lotta antifascista ha avuto anche di questi risvolti ed hanno forse ragione coloro i quali sostengono che le rivoluzioni condensano in sé i sentimenti primordiali dell’uomo.