Il primo piccolo sorso fu assaggiato furtivamente nella cantina di imbottigliamento del signor Ivo Guidetti posta in un cortile dell’antico Albergo Tamburo.
La ragione? Il fatto che abitavamo proprio lì (tra via Berengario e il Ghetto ebraico) noi ragazzi della “banda” di Piazza Martiri: un presidio a difesa del centro del paese dai brigantaggi della periferica “Cagnola” e del temutissimo “Borgo Fortino”.
Lì nei pressi, all’inizio della via Trento Trieste teneva bottega di vino una persona molto riservata, un certo Angiolino detto “al Scranèr” (il sediaio) al quale un giorno chiedemmo ragione dell’incongruenza tra le due sue professioni.
“Dovete sapere – rispose – che spesso si cambia attività nella vita, nessuno mi chiedeva più di costruire delle seggiole e allora mi adeguai”.
Il signor Angiolino era anche un tipo un po’ originale: ai clienti, quale che fosse la richiesta, serviva soltanto lambrusco di una qualità, diceva lui, metà brusca e metà dolce.
“Ma questo vino già esiste e lo chiamiamo amabile” obiettava qualcuno, ma lui quasi si infuriava:
“No, questa miscelatura l’ho inventata io!”.
Insomma qualcosa di selvatico, come nelle controversie della sua qualità, deve pur appartenere questo vino “povero” (secondo una definizione tradizionale) frutto di un’uva nera di sapore acidulo, ma rosso e frizzante e che nel gusto (così dicono, personalmente non l’ho mai avvertito) ci trasferisce un leggero sentore di fragola.